Tractatus Flipperico-Videogamicus

Dalla fornitissima mediateca di Tilt!, ecco rispuntare un vecchio articolo scritto da Umberto Eco e risalente al 1983, purtroppo non sappiamo dove e se gia’ pubblicato in precedenza. Il celebre scrittore, pur apprezzando i videogiochi, ci rivela la sua grande passione per il biliardino elettromeccanico.

La notizia non e’ certo inedita per chi lo legge regolarmente, nei racconti di Umberto Eco e’ spesso presente un passaggio in cui il flipper fa capolino, viene ricordato, viene citato anche solo distrattamente…

:wink:

TRACTATUS FLIPPERICO-VIDEOGAMICUS
di Umberto Eco (1983)

Il fatto che il videogame abbia preso fisicamente il posto del flipper in quasi tutti i bar non deve ingannarci. I due giochi (posso dire: le due filosofie?) sono sostanzialmente diversi. Per intanto chiediamoci perche’ sia possibile giocare a videogame a casa, sul proprio televisore, mentre non e’ mai stato possibile giocare a flipper a casa propria (a meno di non essere molto ricchi o accontentarsi di flipperini da tavolo). Sembra una domanda sciocca, perche’ chiunque puo’ rispondere che il videogame si compera sotto forma di programma (cassetta o dischetto) mentre il flipper e’ un pezzo di arredamento, come una madia o un frigorifero… Bene, risposta esatta, ma vi pare poco? Come e’ possibile comparare un programma a un mobile? E’ come mettere a confronto un sillogismo e una triremi.

Il videogame esiste come algoritmo, possibilita’, e’ aereo, volatile, etereo e – perche’ no – mercuriale, mentre il flipper e’ terrestre, duro, meccanico e forse plutonico.

Si e’ detto, e ripetutamente, che il flipper coinvolge tutta la corporalita’, in quanto anche il colpo d’anche e di pube, tenuto nei limiti infinitesimali oltre i quali si da’ il “tilt”, fa parte della interazione uomo-macchina, al pari del gioco delle mani e dei polpastrelli. Quanto il flipper sia umano, lo si capisce dal fatto che, perduta una pallina, prima di misurarsi con l’altra si puo’ prendere tempo. Anche la stessa pallina, in teoria il giocatore puo’ tenerla in sospeso per una eternita’, bilanciandola o palleggiandola sulle alette flippatrici. Il che significa che nel flipper e’ pur sempre il giocatore a decidere il ritmo; anche nel momento del tiro, in cui si puo’ scegliere tra una cannonata da centrattacco e un servizio piu’ lungo e disimpegnato da terzino indolente che cerchi di tirar tardi negli ultimi secondi di gioco.

Col videogame invece non c’e’ spazio per la distrazione ne’ per la riflessione. E’ la macchina a prescriverci il ritmo d’intervento, il polpastrello conta solo nella misura in cui si piega al ritmo della macchina. Nel flipper invece la macchina si adegua al ritmo del polpastrello.

Se fossero strumenti di guerra, il flipper sarebbe un bazooka mentre il videogame sarebbe un aereo supersonico dove la vita e la morte si decidono in un millisecondo. Nel flipper la macchina non sa nulla sulla traiettoria della pallina sino a che la pallina non tocca il bersaglio. Nel videogame la macchina sa dove io potrei colpire sino dal momento in cui tiro, e programma in precedenza la fuga o il contrattacco dell’avversario. Se mi consente di colpire alcuni bersagli e’ bonta’ sua, per incoraggiarmi a giocare, ma se volesse io non colpirei mai. Dico tutto questo con molta freddezza e senza atteggiarmi a laudatore del tempo che fu: sono un appassionato di videogame, specie quelli spaziali – ne’ mi dispiace Pac-Man – trionfo della vagina dentata contro i missili galattici, fallici, e potrei giocarmi la cessione del quinto dello stipendio nella palude di Frogger. Ma bisogna essere lucidi nell’intravedere il volto del destino e della nostra rovina in ogni illusoria liturgia del piacere.

Il videogame ha qualita’ contraddittorie. Piu’ tecnologico del flipper, pero’ non richiede competenze ne’ di statica ne’ di dinamica e vince sempre chi e’ piu’ innocente e ha i riflessi piu’ svegli, mentre al flipper poteva supplire l’esperienza e l’astuzia. Fatto per educare giovani piloti di supersonici suicidi, il videogame sembra sviluppare al massimo le nostre capacita’ di reazione fulminea allo stimolo. Ma credo che imprima nei nostri circuiti cerebrali delle scie di proiettili traccianti, come una maglia di cicatrici, che a poco a poco spappolano la retina. Ho il sospetto che un pilota che giocasse ogni giorno ai videogames galattici nel momento della prova autentica, vedrebbe, tra se’ e il nemico che si approssima, fantasmi di ragnetti spaziali, e si farebbe disintegrare al primo colpo.

Sospetto altresi’ che i videogames galattici possono educare ad una noncuranza nei confronti di ogni atto distruttivo, rendendo accettabile il fatto che premendo un bottone si possa annullare una citta’ o una astronave da diecimila passeggeri. Mi si osservera’ che non tutti i videogames sono bellici, ma cio’ che li rende tutti affini alle attuali macchine da guerra e’ la loro rapidita’, il meccanismo tutto-o-niente (o scompari tu o scompaio io, o ti mangio io o mi mangi tu), e’ la legge del qui vince chi agisce prima di pensare. In altri termini, il videogame fa dei suoi utenti macchine da guerra perche’ insegna che bisogna consumarsi nella percezione istantanea e non concedere spazio al giudizio. In questo senso il flipper era straordinariamente piu’ filosofico, e se si dovra’ erigergli un monumento dovra’ essere a Koenigsberg.

I tentativi attuali di elettronizzare il flipper mi paiono pretestuosi e patetici. Vinceranno le “arcades” che avranno la buona idea di ospitare flipper asmatici degli anni Cinquanta. Forse la medicina del futuro cosistera’ nella benefica doccia scozzese di un colpo al flipper e un colpo al videogame, alternativamente, per rieducare col primo i circuiti neutrali che il secondo distrugge, e col secondo allenare severamente i riflessi che il primo ci illuse di avere perfezionato (mentre di fatto si sono comprese piu’ a fondo le debolezze della macchina).

Diverso il discorso del videogame casalingo. Puo’ essere una astuzia della ragione: a poco a poco continuera’ a giocarlo solo il genitore, mentre il ragazzo usera’ la macchina per programmare in proprio con lunghi tempi di riflessione. Ma questo e’ un altro discorso, e pensare in Basic e’ molto piu’ “classico” che non pensare con la testa di Luke Skywalker.

Umberto Eco (1983)

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